L’altro, nemico o amico?

Ieri, sabato 10 febbraio, a Macerata si è tenuto un corteo antifascista e antirazzista a cui hanno partecipato circa 30.000 persone in reazione al raid anti-immigrati seguito alla morte di Pamela Mastropietro. Alcune domande sorgono spontanee. Esiste ancora il fascismo? C’è ancora qualcuno che si appella a vecchi valori/disvalori? E con quale consapevolezza, con quale senso critico? Il fascismo oggi non è più quello della marcia su Roma o delle camicie nere, ormai sotto questa etichetta si cela ogni forma di intolleranza verso l’altro, il diverso.

Riflettendo su questo concetto, dopo due settimane dal giorno della memoria vorrei tornare a parlare di ebrei e Shoah mettendo in campo l’autorevole voce di Primo Levi. Nel 1976 il chimico scrittore aggiunse un’appendice al suo capolavoro “Se questo è un uomo” per rispondere alle domande che gli venivano poste dagli studenti quando presentava il libro nelle scuole.

«Come mia indole personale, non sono facile all’odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione […] Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l’odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano né un viso né un nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano invisibili, inaccessibili».

A distanza di trent’anni da Auschwitz Levi ripudia il sentimento dell’odio e si rapporta in modo pacato anche con i suoi persecutori, pur senza dimenticare. Il punto è che se si odia si dovrebbe avere di fronte qualcuno che ci fa del male, mentre spesso l’odio non appartiene alle vittime, ma ai carnefici, e può nascere dall’ignoranza, dalle false convinzioni, dai preconcetti.

Oppressore ed oppresso, due nemici certamente. Questa dialettica è stabilita una volta per tutte o può mutare, evolversi in qualcosa di diverso?

«No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora e in avvenire a perdonare alcuno, a meno che non abbia dimostrato (con i fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico».

Queste parole sono illuminanti, ma sembrano esprimere un ideale utopico. Rileggendole mi chiedo come possa avvenire un ravvedimento, come un nemico possa cambiare volto. La risposta che trovo è solo il dialogo. Parlare significa entrare in contatto, conoscersi, scoprire le differenze che ci sono tra di noi. Da questo reciproco scambio si può uscire arricchiti perché, mettendo in comune le proprie diversità, si può soltanto migliorare. La dittatura è proprio questo, negazione della libertà di parola, di stampa, il non far sapere.

Una delle frasi più significative di Levi è legata proprio al concetto di diversità.

«L’avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell’avversione contro chi è diverso da noi. […] L’antisemitismo è un fenomeno tipico di intolleranza. Perché un’intolleranza insorga, occorre che tra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l’accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private».

Differenza e intolleranza; mi sembra di sentir parlare della “complicata civiltà” di oggi. Non è noioso ricordare la Shoah ogni 27 gennaio, perché gli ebrei sono il modello di ogni diverso discriminato senza un motivo e un giorno all’anno è un tempo troppo breve per parlare di tolleranza e dialogo.

Leggere un libro significa intraprendere un colloquio con qualcuno che spesso non c’è più, ma le cui parole sono sempre a nostra disposizione. Aprendo “Se questo è un uomo” impareremo molto sull’animo umano e forse, se ne comprenderemo il messaggio profondo, riusciremo a guardare la diversità con occhi diversi.

Buona lettura e buon dialogo.

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Alessandro Gerundino

primo levi - corteo macerata

 

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