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La lotta contro il virus: il racconto della malattia dal punto di vista del contagiato

A raccontare la sua storia è Cristiano Brghitta, 53enne romano e giornalista, tornato finalmente a casa dopo settimane di lotta contro il virus e contro il sistema sanitario.

Tutto ha inizio il 15 marzo scorso, quando Cristiano si ammala con febbre alta e problemi respiratori. Da quel momento e per i successivi 10 giorni, chiamerà il 118 per tre volte, ma non riceverà assistenza. La risposta era sempre la stessa, ovvero che non aveva i requisiti del link epidemiologico per procedere con il protocollo.

Nei giorni successivi le sue condizioni continuano a peggiorare, fino al 26 marzo, giorno in cui decide di violare la quarantena autoimposta e di recarsi in pronto soccorso, dove una radiografia rivela una polmonite e due tamponi confermano la positività al coronavirus.
“Il 27 marzo, nel secondo giorno di ricovero viene fuori che sono positivo al tampone. Rivelavo i dati clinici, ma alla domanda se nelle precedenti 48 ore avessi avuto contatti con un covid positivo, facevo rimostranze perché non lo sapevo. Mi rispondevano che avrebbero avvisano la Asl di riferimento, che mi avrebbe ricontattato. Mi chiedo: ma quali direttive ha il 118 se non quella di individuare i contagiate e dare soccorso?”.

“La mia positività doveva essere segnalata subito alla Asl di riferimento per far partire i controlli sui miei congiunti, su mia moglie nello specifico, come stabilisce lo stesso Ministero della Sanità con una circolare del 20 marzo scorso: per garantire l’efficacia dei controlli, l’esecuzione del tampone deve essere immediata su tutti i parenti che dalle ultime 48 ore prima dei sintomi sono entrati in contatto con la persona positiva. Ad oggi, mia moglie non ha ricevuto nessuna assistenza sanitaria” continua a denunciare Cristiano. L’uomo rimane al Sant’Eugenio due giorni, poi viene trasferito al Covid Center dell’Israelitico, dove resterà per 8 giorni.
“Giorni che lasciano il segno sul corpo e la psiche – dice Cristiano – Ho sofferto fortissimi risentimenti gastrici, disidratazione, le mie condizioni fisiche erano tali che non riuscivo a tenere neanche le palpebre aperte. La malattia ti mette a disagio. Ero solo, separato dal mondo, in un reparto in cui i medici non li vedi in faccia, coperti come sono da mascherine e scafandri. Le protezioni, tra l’altro, cambiavano di giorno in giorno: all’inizio indossavano tute con cappuccio, poi camici di carta. Se chiedevo come mai, mi rispondevano: sono esaurite le scorte dei dispositivi di protezione”.

Conclude poi il suo racconto: “Ma il lavoro era impagabile, grande professionalità, nei momenti di sofferenza più acuti c’erano gli infermieri, molti stranieri dall’America Latina e dall’Europa dell’est, che riuscivano a confortarti. Spesso con le mascherine, gli si annebbiavano gli occhiali. La situazione si complicava quando dovevano fare un prelievo. Quando sono stato un po’ meglio ho comprato su Amazon una bottiglia anti-fog e gliel’ho fatta recapitare». Il 4 aprile, dopo due tamponi negativi, Cristiano torna a casa. «Il 14 aprile mi arriva la telefonata della Asl: hanno saputo che sono positivo. Gli dico: vero, ma viaggiate con due settimane di ritardo. Bene, allora la cancelliamo, replicano. E l’indagine epidemiologica sui congiunti esposti al contagio? Mia moglie non ha sintomi, ma nessuno le esegue il tampone”.