Le leggende del numero 7

Se c’è una cosa che ogni sportivo sicuramente fa nella propria vita è scegliere un numero. Un numero da mettere sulle proprie spalle, un talismano a cui affidarsi nell’imprese sportive più difficili e, perché no, un numero da indossare durante le partitelle con gli amici. Ma quello che solamente un bambino può fare mentre indossa quello stesso numero è sognare di diventare come uno di quei grandi giocatori che hanno indossato lo stesso numero. Il 7, infatti, è un destino inesorabile che ti accoglie dentro di sé e ti porta sull’Olimpo dei più grandi. Nel mondo del calcio gloriose spalle hanno portato quel numero con estrema classe e leggiadria che contraddistingue le grandi ali del mondo del pallone. Giocatori che hanno reso questo sport ancora più bello ed affascinante perché erano e sono più di semplici uomini, come quello sicuramente è più di un semplice numero. E’ una leggenda.

Proprio per questo motivo oggi (e nel prossimo numero) vogliamo raccontarvi la storia dei più grandi calciatori che hanno indossato questa maglia. Il primo fra tutti fu Manoel Francisco Dos Santos, meglio noto come Garrincha, ala destra del Botafogo degli anni 50/60. Chi lo sa se la sorella quando gli attribuì questo soprannome (da una specie di uccelli che era solito rincorrere) avrebbe mai pensato che effettivamente Garrincha ogni qual volta prendeva palla volava tra gli avversari smarcandosi dal primo all’ultimo. C’era una cosa che lo contraddistingueva da tutti. Una finta con le gambe che mandava 9 volte su 10 l’avversario a terra, il tutto grazie (guardate il destino) ad una malformazione alle gambe che lui ha saputo sfruttare al suo servizio. Eroe del Mondiale post Maracanazo e giocatore straordinario. Eppure quella stessa finta lo ha portato via via (insieme all’alcool e ad altre problematiche di salute) verso il declino sportivo. Troppo dolore per le sue ginocchia, per la spina dorsale deformata che nemmeno un’operazione decisamente invasiva è riuscita a salvarlo. Nonostante ciò, Garrincha sicuramente è stato e rimarrà una delle più grandi ali di tutti i tempi. Sicuramente non da meno, anzi forse anche di più, lo è stato George Best, o meglio noto George “The” Best. Si perché George Best è l’incarnazione vivente di quel numero di maglia. Un Nord Irlandese capace di mille impensabili imprese professionali e non (si racconta che ha posseduto una collezione di jaguar di diversi colori oltre ad aver frequentato ben due Miss Mondo). Soprattutto non. Chiamato il Quinto Beatles, anche se dei Beatles effettivamente aveva ben poco (era più tipo da Jim Morrison), George Best è stato il più grande calciatore europeo della storia. Esordisce a solo 22 anni, facendo una miriade di goal tra Premier e campionato USA prima del suo declino fino alla prematura morte. Vince Coppa Campioni (con Busby in panchina allo United ma questa è un’altra storia), campionato, FA Cup, segna a chiunque ed è diventato una delle prime star del mondo del calcio. Non a caso vince il Pallone d’Oro nel 1968, anno particolare per il mondo che visto nascere le rivolte studentesche e chi meglio di lui quell’anno doveva vincerlo quel premio, lui che veramente ha segnato un’epoca di rivoluzione. Lui che, dopo aver vinto in semifinale di Coppa Campioni contro il Benfica di Eusebio, è sceso dall’aereo con un sombrero. Lui che è stato un’icona per tutti i calciofili del mondo senza sfigurare vicino a giocatori del calibro di Bobby Charlton. Oltre ad avere intitolato a suo nome l’Aeroporto di Belfast, sua città nativa, il nome di George Best è scritto su una delle frasi più celebri che lo hanno contraddistinto, nel bene e nel male: “Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato”. Qui c’è tutto George The Best. Genio e sregolatezza di un talento che è diventato campione. Questa frase dice tutto, ma ciò che non dice è che uno come lui probabilmente non ci sarà più… o quasi. Lo vedremo alla prossima.

di Luigi Colucci

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