Via di San Francesco di Paola: vicus sceleratus

Ogni sabato sera giovani e meno giovani escono di casa per gettarsi nella movida romana recandosi in vari punti della citta, uno dei quali è certamente il Rione Monti. Parcheggiare è impresa ardua ma, con un pizzico di fortuna, si potrà trovare un posto libero nella piazza di San Pietro in Vincoli e finalmente spegnere il motore. A questo punto, per andare a Monti, verrà spontaneo percorrere una scalinata in discesa, che inizia con il sottopasso del palazzo dei Borgia, attraversare la strada, fare un’altra breve scalinata ed eccoci arrivati alla meta.

    Questo piccolo itinerario è certamente piacevole anche perché, uscendo dal sottopasso e girandosi, si potrà ammirare la facciata del palazzo ricoperta da piante rampicanti e illuminata dalla luce arancione dei lampioni, ma in realtà, secondo la leggenda, questa discesa è legata ad un terribile evento che gli storici riferiscono con dovizia di particolari.

Via di San Francesco    La via nell’antichità prendeva il nome di vicus sceleratus perché era stata teatro di uno scelus, un delitto, un’orrenda scelleratezza. Siamo al tempo dei re di Roma e Servio Tullio è stato appena ucciso da suo genero Tarquinio, che passerà alla storia con il nome di Tarquinio il Superbo, con la complicità della figlia Tullia. Quest’ultima, mentre percorreva le strade della città sul cocchio, si imbatté nel corpo senza vita di suo padre proprio sulla nostra discesa. Sentiamo cosa ci racconta Tito Livio:

“Mentre Tullia faceva voltare sulla strada il carro verso il Clivo Urbio per raggiungere l’Esquilino il cocchiere, tirate le redini, si mostrò spaventato, mostrando alla padrona il cadavere di Servio che giaceva sulla strada […] Si narra che Tullia, spinta alla follia dalle Furie della sorella e del marito, fece passare il carro sul corpo del padre, portando le tracce del parricidio sul carro insanguinato, anch’essa contaminata e aspersa del sangue paterno”.

    Altre versioni dicono che quando il cocchiere le fece notare il corpo morto, ella lo colpì alla testa con uno sgabello, dicendogli di spronare le mule che tiravano il cocchio, e descrivono le ruote sporche di sangue. 

    Per aggiungere una nota positiva a questo luogo possiamo ricordare la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, uno storico greco appassionato dell’Urbe che scrisse un’opera fondamentale per la storia romana. Egli racconta che la discesa si chiamava vicus sceleratus nella parte alta, mentre nella rimanente prendeva il nome di vicus Cyprius, che nella lingua sabina significa bonum omen, cioè buon presagio. Il motivo di questo nome “straniero” era dovuto al fatto che in quella zona e lungo quella strada in particolare abitavano i Sabini, che in realtà si erano fusi con i Romani già dal tempo del famoso ratto.

    Non si può fare a meno di rilevare che il buon presagio sabino non si era avverato, anzi era accaduto un terribile delitto.  

    

Alessandro Gerundino

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