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Roma allo specchio

Leggenda e storia tra il Velabro e piazza della Consolazione

Il tempo cancella molte cose, ma la memoria spesso riesce a preservare il ricordo di ciò che è stato e lo riporta alla luce. Una zona di Roma che oggi è inavvicinabile per i prezzi delle case, quella compresa tra piazza della Consolazione (alle pendici del Campidoglio) e San Giorgio al Velabro, agli inizi del ‘900 era un quartiere popolare dove si faceva il mercato, si allevavano gli animali, i bambini giocavano per strada e si raccontavano storie. La chiesa della Consolazione era parrocchia e fino agli anni Trenta ad essa era annesso un ospedale che accoglieva prettamente le persone ferite nelle risse o durante i duelli, probabilmente perché si trovava vicino a Trastevere e a Monti, che erano due rioni molto turbolenti. Quando durante una discussione si alzava la voce e la gente iniziava a litigare si era soliti dire “Me sa che tu voij finì alla Consolazione”.

L’ospedale in seguito venne chiuso e scomparvero anche tutte le case che sorgevano intorno ad esso; furono cancellate anche tre famose strade: via di Monte Tarpeo, via di Monte Caprino e via della Bufala. I nomi delle ultime due strade rimandano agli animali perché in quei luoghi pascolavano le capre, che per brucare si inerpicavano sul Campidoglio, e si teneva il mercato; inoltre a via della Bufala c’era uno stallatico, una sorta di albergo in cui trovavano ricovero a pochi soldi commercianti, pastori e contadini, che nel cortile aveva sia i depositi per le merci sia una stalla per gli animali che dovevano essere venduti o servivano come mezzo di trasporto.

Spostandoci verso il Circo Massimo troviamo la zona del Velabro, in cui sorgevano mulini e opifici e il cui centro era pizza Sant’Anastasia. L’area compresa tra l’Aventino, il Campidoglio e il Tevere in età romana era chiamata Foro Boario perché lì si teneva il mercato dei bovini. Tacito, nel xii libro degli Annales, racconta che in quel luogo era stata collocata una scultura di bronzo raffigurante un toro perché da lì Romolo iniziò a tracciare con l’aratro il solco che avrebbe delimitato il confine di Roma. In realtà il toro probabilmente era il simbolo del commercio bovino, ma certamente la zona è legata al mitico fondatore. Secondo la leggenda la cesta che conteneva Romolo e Remo si sarebbe fermata nei pressi del Velabro e proprio in quel luogo li avrebbe trovati la famosa lupa.

Tra i mestieri ormai scomparsi c’è quello del “santaro”, un artigiano che fabbricava immaginette sacre che raffiguravano i santi, dette comunemente santini. Questo personaggio conosceva a memoria il calendario e soprattutto le feste e le tradizioni delle varie chiese di Roma, infatti, quando una parrocchia festeggiava il santo a cui era intitolata, ecco che il santaro si presentava davanti alla chiesa per vendere il suo prodotto.

Di questa figura parla l’abate Cancellieri in una lettera del 4 luglio 1807. Racconta che un santaro vendeva le immagini di cinque nuovi santi proclamati nel giugno precedente da papa Pio VII a un baiocco l’una dicendo che, a chi le avesse comprate tutte, avrebbe regalato gratuitamente il santino del papa. Il problema fu che urlava «Un bajocco li cinque santi e’ r papa a uffa!». La polizia non apprezzò questa particolare pubblicità, lo arrestò e gli ordinò di non ripetere più la frase offensiva nei confronti di Sua santità. Lui tornò a vendere, ma i romani, avendo saputo dell’arresto, tentavano di farlo ricadere nell’errore e dicevano: «A santà, er papa a uffa nun lo dai?». E quello rispondeva: «Ahò, nun se frega er santaro!». Quest’espressione era utilizzata nel secolo scorso quando a qualcuno veniva fatta una proposta poco conveniente o poco chiara.

Insomma, se qualcuno ci chiedesse di dargli un passaggio in centro durante uno sciopero dei mezzi pubblici, sapremmo cosa rispondergli!

Di Alessandro Gerundino

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