Solo due giorni fa è stato martedì grasso e anche nella Capitale non sono mancati i carri, gli spettacoli e le sfilate di maschere; ma in realtà la festa del carnevale è stata sempre molto importante per i Romani al punto da entrare a far parte degli statuti comunali del 1360, i primi che ci sono pervenuti.
Nel medioevo per celebrare la ricorrenza venivano organizzati dei giochi a cui i cittadini partecipavano numerosi. Gli eventi principali si svolgevano a piazza Navona (in Agone, come si chiamava a quel tempo) e a Testaccio ed erano molto differenti tra di loro. La domenica un corteo partiva dal Campidoglio ed arrivava al prato sotto Monte Testaccio dove si svolgeva una cruenta tauromachia a cui prendevano parte anche i rampolli della nobiltà romana. La caccia terminava con l’uccisione dei tori e lo squartamento dei maiali, spettacolo volgare e violento probabilmente riconducibile agli antichi riti della fertilità. Più raffinati i giochi del giovedì grasso; dopo l’arrivo del corteo in Agone si teneva la corsa degli anelli, per la quale serviva grande abilità e preparazione atletica, e il vincitore era premiato con il conferimento di un palio, cioè un drappo di stoffa preziosa.
I festeggiamenti rimasero immutati per vari secoli finché il 30 agosto 1464 non venne eletto papa il veneziano Pietro Barbo, che prese il nome di Paolo II. Nipote di Eugenio IV, (al secolo Gabriele Condulmer) deceduto nel 1447, Barbo era un grande cultore dell’antichità classica e collezionista di oggetti di antiquariato. Quando venne nominato cardinale gli fu affidato il titolo di San Marco, chiesa che si trova nei pressi di piazza Venezia, e lì vicino iniziò a costruire il suo imponente palazzo, che attualmente è conosciuto con il nome di palazzo Venezia. Il pontefice si mostrò molto attento alle richieste del popolo e volle apparire come un sovrano che vive in mezzo alla gente, proprio per questo non si trasferì a San Pietro, ma spostò tutti gli uffici di curia nella sua residenza privata. Durante il suo pontificato venne progettata e realizzata la piazza antistate all’edificio, che ebbe però una struttura molto diversa rispetto a quella odierna, essendo grosso modo di forma quadrata. Dove oggi sorge il Monumento a Vittorio Emanuele II si fece costruire un palazzo che all’interno aveva un giardino pensile, il cosiddetto viridarium; l’edificio in seguito venne smontato e rimontato accanto alla chiesa di San Marco.
Paolo II nel 1466 si fece promotore di una riforma degli statuti comunali con cui si stabilì che i festeggiamenti per il carnevale sarebbero durati nove giorni. Un’importante novità fu l’introduzione di alcune gare di corsa che si tennero a Via Lata (Via del Corso) a cui poterono partecipare sia i ragazzi di età compresa tra i dodici e i quindici anni sia gli ebrei. Tutto ciò mette bene in luce la strategia politica del papa, che mirava a conquistare il consenso generale. Venne addirittura organizzato un banchetto pubblico a cui furono invitati tutti i cittadini senza distinzione di ceto sociale.
Questi eventi vengono minuziosamente narrati da un ambasciatore milanese al duca Francesco Sforza in una lettera datata 21 febbraio 1466. Racconta che in occasione del banchetto il pontefice aveva fatto portare in piazza «un vaso grandissimo de marmo serpentino che stava presso al Colisseo in forma de una concha», probabilmente per riempierlo d’acqua e tenere le bevande in fresco, poi parla dei palio aperto agli ebrei «per fare che zudei e cristiani tutti partecipasseno del piacere et feste», ma si sofferma molto sul banchetto.
Dopo avere saziato i funzionari del Comune e i nobili con cibi succulenti (torte perfette, frittate e de li macaroni a furia) e vini di prima scelta (grechi, moscatelli e malvasie perfectissime), arrivò il turno del popolo che iniziò a mangiare avidamente. Ma il papa, oltre ad offrire il banchetto, aveva fatto mettere delle monete nei piatti di maccheroni e quando questo fu scoperto accadde qualcosa di sbalorditivo.
«El papa medesimo per una festa ne fece portare de molti piatti, ove erano messi dentro alcuni bolognini et altre monete, quale ritrovati per quisti tali credeteno esserne misso per tutti li macaroni, et cascuno oltre a quilli che avevano manducati, se ne reponevano parte in le tasche, parte in li carneri, parte in berrete, parte in le calce, parte in le braghe per cercar poi li denari a casa».
Una scena simile è presente nel film “Miseria e nobiltà” quando Totò e gli altri commensali si infilano gli spaghetti nelle tasche dei pantaloni, solo che nel 1466 non si trattò di una recita, ma della realtà. Per concludere non si può far altro che riportare il commento dell’ambasciatore milanese: «non se vide mai el più bel zogo».
Alessandro Gerundino
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