È la quarta pellicola questo Assassinio sull’Orient Express (la prima, quella di Sidney Lumet, risale al 1974), ed è sicuramente questa un’edizione più fortunata rispetto alle precedenti: il cinema progredisce e così una rappresentazione si arricchisce di dettagli e particolari che mancavano alle precedenti. Certo non è facile oggi per il genere giallo, quello di stampo classico in particolar modo, trovare terreno e consenso nel panorama contemporaneo fatto di sequel, reboot, e spin-off spettacolari, ma se alla regia si trova un grande regista come Kenneth Branagh l’impresa non è poi così impossibile.
Il merito del regista e interprete del film è quello di dare i giusti accorgimenti (tecnici in particolar modo) con qualche tocco personale per rendere appetibile, anche per un pubblico giovane, l’opera di Agatha Christie.
C’è un uso fantastico degli sfondi, con il passaggio dei caldi luoghi mediorientali di Gerusalemme fino a quelli innevati delle catene montuose della Jugoslavia: squarci fotografici che restano nella memoria dello spettatore per la bellezza delle inquadrature. Un ottimo uso del CGI, seppur minimale, che dà quel taglio di modernità tipico di una pellicola contemporanea (è fantastica da questo punto di vista la scena della valanga che porta al blocco prolungato del convoglio).
Un uso inoltre ponderato e meticoloso della videocamera riesce inoltre evidenziare la cura particolare sui dettagli stilistici, ridestando così le atmosfere di fine Ottocento descritte nel libro; su questo poi sono affascinanti alcune inquadrature volute da Branagh che sono come una sorta di sguardo incarnato dello spettatore che sembra seguire lo svolgimento delle azioni in diretta, dall’esterno o dall’alto.
Nel cast spicca fra i tanti mostri sacri (Johnny Depp, Judy Dench, Michelle Pfeiffer, Penélope Cruz ad esempio) e nuove rivelazioni del pantheon cinematografico (Daisy Ridley è notevole in questo film) proprio Kenneth Branagh che definisce il suo Poirot in una nuova chiave quasi shakespeariana, ma bellissima e carica di emotività: nella trama, conosciuta (l’indagine dell’ispettore belga sul treno riguardo la morte di un certo Ratchett), quello che si assiste è il cammino interiore di un uomo che legato a una visione drastica della vita , cioè la sola esistenza delle categorie di “giusto” e “sbagliato”, si ritrova sfidato non tanto nella semplice risoluzione di un caso, ma quanto nell’accettazione di una “terza via” che mette in crisi la sua logica. E non è un caso che Branagh abbia proprio lasciato più spazio al suo protagonista, con il suo ingegno, le sue bonarie abitudini, la sua pignoleria, il suo dissidio, che a uno svolgimento puramente “giallo” della pellicola: di questo l’evidenza non è tanto la presenza di tagli sulla trama originale, quanto la rapidità, imprecisa, su cui si arriva alla fine. Meno giallo ma più introspezione è quindi la formula che il regista ha usato: se da un lato può lasciare un certo amaro agli amanti del genere, dall’altro però i personaggi (Poirot su tutti) trovano quell’affinità con il pubblico che non a caso la Christie cercava per i suoi rispetto ai lettori.
Nel finale aleggia un’aria di sequel …
Di Nunno Antonello