Uno spazio vuoto, indefinibile. Due giovani donne, due sorelle, nell’attesa di un improbabile autobus, meditano sul loro futuro di attrici che hanno appena visto fallire la propria piccola compagnia teatrale. Ma non è “Teatro nel Teatro”, né una riflessione sul ruolo dell’attore.
Questa commedia nasce dall’esigenza di intervenire, nell’ambito della scrittura, sulla situazione eternamente drammatica della precarietà, venuta proprio in questo periodo (tra pandemia, venti di guerra e realtà virtuali che sembrano sciogliere ogni nostra residua certezza) così prepotentemente alla ribalta. La scommessa è stata quella di riuscire a parlarne in modo non cronachistico, ma apparentemente lieve, delicato (anche visivamente: ecco uno dei perché della scena rigorosamente spoglia), senza minimalismo ma anche senza urla.
Una commedia fatta di personaggi piccoli e comuni, sensibili e fragili: non a caso due attrici; persone cioè che già vivono una posizione precaria per costituzione, fatta di spostamenti fisici e soprattutto mentali, adesioni caratteriali ed emotive a situazioni drammatiche o comiche, felici o disperate ma comunque diverse, altre.
Così, quello cui assistiamo potrebbe essere un gioco, dettato dal carattere menzognero di una delle due sorelle, o realmente una situazione estrema, scaturita dall’amore e ancor più dall’ingenuità sperduta ed insicura di Susanna, da cui sembra possibile uscire col più devastante dei rimedi… Francesca, la sorella così diversa da lei, ricettiva e vibratile come la corda di un violino, accetta con spirito cechoviano questo triste destino, o davvero crede che non si tratti d’altro che dell’ennesimo scherzo della melodrammatica ‘Susy’? A ciascuno la propria personale risposta. Ma perché Cechov? Citato come un tormentone da Francesca che sogna quegl’impareggiabili ruoli femminili, non figura certo perché si parla di sorelle, né per la mia personale predilezione: ma proprio per la sua peculiare, straordinaria capacità di essere sobrio, accessibile e naturale pur parlando sempre del grande tragico quotidiano; mostrandoci l’aspetto più terribile, quello comune ed ordinario del “male di vivere”: in modo sofferto ma stemperato nella superficie da quel comico/tragicomico che riproduce così impietosamente la vita com’è!
Perciò, questa commedia è un tentativo di parlare “controcorrente” di un argomento doloroso di cui mi sembra troppo facile parlare dolorosamente. Se la drammaticità arriverà allo spettatore pur tra le pieghe di battute e situazioni capaci magari di suscitare il riso (o meglio uno chapliniano sorriso), il risultato sarà stato quello desiderato. Memore, come sono, dell’insegnamento nietzschiano: “Ciò che è profondo vola sulle ali di una farfalla”.