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Stefania Giardoni, prima positiva a Roma: “Hanno paura di me”

“Ci sentiamo abbandonati, lasciati soli a vivere una vita che non è più la stessa di prima, trattati come degli appestati”.
Sono parole di dolore quelle di Stefania Giardoni, 50enne e primo caso di coronavirus a Roma; la donna è stata la prima ad ammalarsi e l’ultima a lasciare il San Camillo dopo aver transitato nello Spallanzani, al San Filippo Neri e al Covid hospital di Casalpalocco.

“Nulla è più come prima – continua – l’altro giorno i vicini che abitano sopra di me hanno aspettato che io entrassi in casa e chiudessi la porta per salire sul mio pianerottolo e proseguire sulle scale. Dopo la malattia ora tocca combattere con l’ignoranza.
Ho così scoperto che non sono l’unica, a mesi di distanza, a perdere i capelli come se facessi la chemio, ad avere subito l’interruzione del ciclo mestruale e come me, in tanti, hanno dolori fortissimi alle ossa, ai piedi, una fitta costante al torace per le cicatrici ai polmoni.
Per i primi due mesi sembra che ti porti appresso un sasso, ti senti rigida quando ridi, quando respiri”.

Continua la 50enne:
“sono venuta in contatto con molte persone, uomini e donne, che si sono ammalate mentre lavoravano come operatori socio sanitari o addetti alle pulizie in ospedali o case di cura, chi ha ripreso a lavorare lo fa con molta più fatica e la paura di contagiarsi di nuovo. Ma nessuno può dire che non ce la fa, sennò rischi di perdere il lavoro. Per tutti loro, per tutti noi c’è bisogno di un supporto vero, di entrare a fare parte di un percorso assistito e con tutele. Il follow up attuale non è sufficiente.
Il dottore mi ha subito chiesto come andava lo stomaco. Io ho dei bruciori grandi, quindi lui sapeva già che potevo averli – dice – mi ha prescritto una montagna di esami, da fare tutti andando in autonomia a richiederli al Cup, in strutture diverse. Mi chiedo: non è possibile programmare per noi pazienti sperimentali, i primi ad avere combattuto il Covid quando anche le cure andavano per tentativi, giornate di day hospital per uno screening completo? Perché, vede, né io né altri possiamo pure prenderci il lusso di richiedere giorni o permessi di continuo”.

“Quando bevo una bibita – conclude l’ex commessa – è come se ingerissi sapone. Dalla vita fino all’altezza del cuore senti un macigno.
Siamo stati i primi, curati con gli antivirali per l’Hiv e con l’idrossiclorochina. Siamo i reduci del Coronavirus”.