Elisabetta Abruzzese, romana, è un’ematologa del Sant’Eugenio ASL Roma2. La dottoressa lavora nel campo della ricerca da oltre 30 anni, studiando le malattie del sangue e specializzandosi nelle donne affette da leucemia.
Da qui parte la sua denuncia, dalla vicinanza alle donne colpite non dal coronavirus, ma da altre patologie. Il Covid19 non ha intaccato la loro salute, ma ha tolto loro il lavoro e quei piccoli guadagni mensili che riuscivano a procurarsi. Pagare cure e farmaci diventa allora impossibile, decidendo di rimandare qualsiasi intervento a quando sarà possibile pagarlo.
“Sono storie che ti stravolgono – riflette Elisabetta – Penso ad una nostra paziente alla quale abbiamo proposto un percorso di preservazione della fertilità prima di una terapia che potrebbe comprometterla. All’inizio aveva accettato, poi, quando è venuta a conoscenza che il percorso è tutto in convenzione ma una medicina specifica è a pagamento, ci ha confessato di essere in attesa della cassa integrazione da due mesi e di non poterselo permettere.
Un altro caso che ci ha molto colpito è quello di una paziente che deve venire a fare delle flebo per risolvere un problema di anemia. Ci ha chiesto timidamente se c’è un ticket da pagare per quelle flebo, non essendo esente, e alla nostra risposta affermativa dice di non potersi permettere le cure e se può rimandare di un paio di mesi…
Mi ha colpito la dignità di queste donne, che giustificavano la situazione “spostando” l’ostacolo a giorni migliori…
Per tutte queste donne poi la soluzione è stata trovata, ma il primo impatto personale è stato di disorientamento – commenta Elisabetta Abruzzese – In tanti anni di lavoro, e sono in ematologia dal 1989, non era mai successo qui in Italia. Situazioni ben più gravi sono più comuni negli Stati Uniti dove ho trascorso 4 anni tra il 1993 ed il 1997, ed è stato uno dei motivi che mi ha spinto a tornare in Italia dove abbiamo sempre avuto la possibilità di curare tutti al meglio indipendentemente dalla condizione economica o sociale.
Abbiamo dovuto reinventare il nostro lavoro e riuscire a restare vicino ai pazienti, e a proseguire le cure nei casi più acuti, cronici o fragili in una fase storica in cui tutti gli ospedali, anche per proteggere questi pazienti, ruotano intorno al Coronavirus.
Come le guardie – racconta – che quando ti fermano e gli dici che sei medico ti sorridono con gli occhi e ti sentono a loro vicine, tutti uniti da un lavoro che ti mette a servizio della comunità e ti fa sentire ancora più utile”.