Sabato Roma ha riaperto le porte a un appuntamento che pesa. Il tema? Nucleare e diplomazia alla presenza del ministro Tajani.
Non esattamente roba da chiacchiere al bar, ma quello che è accaduto nella capitale ha comunque messo l’Italia in una posizione centrale, di nuovo.

Dopo il primo incontro avvenuto a Muscat, in Oman, le trattative si sono spostate in Italia, accendendo i riflettori su un tavolo tanto delicato quanto necessario. E a dare voce all’impegno italiano ci ha pensato Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepremier.
La città eterna, con le sue mille contraddizioni e la sua storia millenaria, si è trasformata per un giorno in un laboratorio diplomatico, dove si è discusso del futuro del programma nucleare iraniano. Ma, attenzione, non è stato un incontro formale o simbolico: si è trattato di un colloquio operativo, con il chiaro obiettivo di frenare qualsiasi corsa all’arma atomica da parte di Teheran. E in questo contesto, Tajani ha ribadito con forza un concetto chiave: “Roma è capitale di pace”.
Parole forti, che suonano come un invito. O meglio, come una promessa: l’Italia è pronta a offrire spazio, ascolto e sostegno a tutte quelle iniziative che possano davvero spostare l’ago della bilancia verso una risoluzione pacifica dei conflitti. “Accogliamo con favore questi incontri”, ha detto Tajani, “perché se portano risultati concreti, vanno sostenuti”.
Un quadro complesso
Il quadro però è complesso. Al momento, non sono stati resi noti tutti i nomi dei partecipanti ufficiali, ma qualcosa si muove. Da parte americana, c’era Steve Witkoff, che ha già messo piede in Oman nella fase precedente, e ha avuto colloqui con Ron Dermer, il braccio destro del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Un intreccio fitto di alleanze, posizioni strategiche e tensioni latenti.

A complicare il tutto, ci ha pensato anche una delle solite frasi a effetto di Donald Trump, che ha rivendicato con orgoglio i suoi anni alla Casa Bianca, sottolineando come allora “l’Iran fosse economicamente a terra” e che l’unica condizione per un dialogo oggi è il divieto assoluto di armarsi con bombe nucleari. Il tono, manco a dirlo, è stato minaccioso: “Se dovremo agire, lo faremo. Per il bene del mondo”.
E così, tra equilibri precari e messaggi trasversali, l’Italia ha provato a rilanciare un ruolo che forse in molti avevano dimenticato: quello del mediatore credibile. Non per tornaconto politico, ma per la volontà di costruire ponti, là dove altri erigono muri. E la scelta di Roma, anche in questo senso, non è casuale. È un richiamo al suo passato imperiale, ma anche alla vocazione attuale di fare da crocevia di culture e diplomazie.
Alla fine, la domanda vera è questa: quanto possono ancora contare i colloqui multilaterali in un mondo che sembra viaggiare a ritmi sempre più individualisti e polarizzati? Vale ancora la pena sedersi a un tavolo, parlare e negoziare, oppure la via della forza è l’unica rimasta? Forse, proprio la presenza italiana a questi incontri ci dice che la risposta non è ancora scritta.