C’è un silenzio strano, oggi, a via Anassimandro, nel cuore del Pigneto, uno dei quartieri più vivaci di Roma. Un silenzio che pesa.
Non per mancanza di rumori, ma per la presenza ingombrante di una domanda che aleggia tra i vicoli: come può succedere una cosa così davanti al proprio portone?
Nella notte tra sabato e domenica, due fratelli, ragazzi giovanissimi di origine cinese, sono stati uccisi sotto casa, appena fuori dall’ingresso del palazzo dove abitavano. Lui, 22 anni. Il fratello maggiore, 25. Lavoravano nella ristorazione, erano conosciuti nel quartiere, soprattutto tra chi frequentava i locali della zona. Una routine fatta di turni lunghi, risate coi clienti, e la voglia – chissà – di costruirsi una vita diversa, migliore.
Poi, improvvisamente, tutto si ferma. Un uomo col volto coperto, uno scooter in attesa, colpi di pistola esplosi a bruciapelo. E una fuga veloce, come se fosse tutto stato pianificato al secondo.
Quello che è accaduto al Pigneto non è solo un fatto di cronaca. È un colpo alla pancia di un quartiere che, tra mille contraddizioni, ha sempre provato a restare unito. Ed è anche un trauma collettivo per la comunità cinese di Roma, che in queste ore si stringe intorno alla famiglia delle vittime, tra veglie, candele e silenzi pieni di significato.
Nessuno al momento ha un nome certo per spiegare il perché. Gli investigatori della Squadra Mobile non escludono nessuna pista. Alcuni parlano di un possibile regolamento di conti, ma nulla è ancora confermato. Quello che è certo è che chi ha sparato sapeva esattamente dove e quando colpire.
Il Pigneto è un quartiere pieno di energia, ma anche attraversato da contrasti forti. Da anni i residenti segnalano episodi di violenza, degrado, tensioni tra gruppi. Non è raro sentire qualcuno dire che dopo una certa ora preferisce non uscire di casa. E questo, a Roma, fa male.
Dopo l’omicidio, in molti hanno chiesto più presenza delle forze dell’ordine, telecamere, controlli mirati. Ma la verità è che in certe zone la sicurezza non si garantisce solo con le pattuglie. Serve ascolto. Serve fiducia. E serve una risposta che vada oltre l’emergenza del momento.
Restano due nomi, due volti, due giovani vite spezzate. Restano le lacrime dei genitori, che avevano scelto Roma per offrire ai figli un futuro. Resta un portone, quello davanti al quale è successo tutto, che ora è diventato un piccolo altare di fiori e biglietti.
Ma resta anche una domanda. Una di quelle che non ti fanno dormire: chi erano davvero quei ragazzi per meritarsi una fine così? E, ancora, cosa stiamo diventando se una vendetta, o qualsiasi altra motivazione, può valere due vite umane?
Il Pigneto non è nuovo al dolore, ma stavolta qualcosa si è rotto più in profondità. Ora sta a chi governa e a chi indaga trovare le risposte. E a tutti noi, forse, restare più vigili. Perché nessuno dovrebbe mai avere paura di tornare a casa.