Dopo aver osservato i nostri desideri, emozioni, sentimenti, pulsioni e stimoli del pensiero con empatia e introspezione, mi chiedo come possiamo rendere tutto questo “fine a qualcosa di più grande”, in un momento storico in cui guardare con lungimiranza al futuro ci fa tremare. Introspezione, meravigliosa pratica, di guardarsi ed esprimersi. La felicità dell’introspezione da sola può diventare però soddisfazione dell’ego, del desiderio del momento, dell’emozione individuale, e non del sentimento costruito con l’altro. Può diventare freddezza e individualismo. Allora esiste una empatia sociale, un portare al di fuori quello che abbiamo visto in noi e sommarlo a qualcun altro, e vedere che succede (succedono magie, creazioni, sorprese cosmiche!).
Si chiama “Estrospezione”. Uscire al di fuori di noi, vedere l’altro e mettere in atto strategie comuni ci fa scoprire prospettive che aprono orizzonti comuni e creativi. In questo caso il processo empatico è una forma d’arte, perché rende possibile il nostro essere animali sociali, guardare davvero l’altro e dedicarsi a una causa più grande di sé. Nel processo empatico il “fare” è una parte importantissima, la strategia che, connessa ai bisogni
di tutti, diventa creativa e potente, oltre che efficace ed affidabile, perché è condivisa.
In questo momento in cui il contatto con gli altri è vietato e sconsigliato, abbiamo molto spazio per una introspezione, e uno spazio invisibile e apparentemente inaccessibile per l’estrospezione. Apparentemente perché il nostro stare con noi stessi ha un valore di estrospezione, ha un valore grande per la collettività e per l’altro. Significa stare nell’introspezione per poter curare tutti quanti.
La solitudine di questo momento ha un valore per la compagnia, per la collettività, è finalizzata a stare ancora tutti insieme. Questo può essere utile quando il nostro ego punta i piedi e si sente solo, e non riesce a vedere oltre la giornata. Quando non si sente in connessione con il sentire di milioni di altre persone, come in questo momento. E quando ci sentiamo scoraggiati perché non ci sentiamo produttivi o utili, o visti.
Il paradosso dell’individualità ce lo hanno instillato con i prodotti di massa: “Sei unico! (ma compra quella macchina come tutti)”. Ribaltiamo il concetto! Siamo tutti uguali, guardiamoci, ritroviamoci. È nel fare e nelle relazioni che possiamo esprimere la nostra unicità, la nostra strategia creativa di comportamento, di soddisfazione dei bisogni.
Attraverso il “fare”, attraverso l’organizzazione delle attività, possiamo riconnettere queste due parti, l’interno e l’esterno. Noi e gli altri.
Questo compito di connetterci agli altri e costruire il nostro fuori lo faremo adesso da soli. Create una routine in questo momento, spazi autogestiti di lavoro, di svago, di faccende domestiche e personali, datevi una disciplina che ha lo scopo di prediligere la dignità consapevole e il senso del concreto alla sicurezza automatica e alle scontate certezze. Immaginiamo soluzioni creative a qualcosa che ci sembrava si potesse fare solo in quel modo. Cosa avete imparato per necessità?
Io oggi ho imparato a fare una puntura antidolorifica, con grande emotività e con la sicurezza di un piccolo di giraffa che si mette per la prima volta sulle zampe tremolanti. Voi cosa avete imparato? Quali soluzioni creative avete trovato?
Dott.ssa Elisa Chiarotto
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